La grande fuga

Il povero Rajesh non ce la fa più, moglie tre figli, laureato, 35 anni vuole scappare via dal Nepal e come lui tanti altri giovani della middle-class di Kathmandu.

Eppure a Rajesh non và malissimo, lo assunsi nella INGO, buon lavoro e buon salario (Nrs. 25.000\ca.€ 250 al mese), un sistema di previdenza sociale e malattia per i dipendenti e le famiglie e, dunque, assolutamente privilegiato rispetto ad altri settori (e anche ad altre INGO). Mi dice che il lavoro è diventato burocratico, che i beneficiari hanno visto ridotti drammaticamente gli interventi e che l’ufficio è stato riempito da fannulloni d’alta casta. L’ONLUS italiana che finanzia i progetti è finita in mani di politicanti bolliti e in fase di progressivo sfascio e i nuovi dirigenti non sanno neanche dov’è il Nepal. Mi dice che quando viene qualcuno dall’Italia si fa un bel trekking, qualche riunione inutile e neanche và nei villaggi sede dei progetti, troppo scomoda la strada e la permanenza.

Il lavoro lo deprime ma, più importante, è Kathmandu che gli sta stretta. Mi elenca i noti problemi: non c’è benzina, gas e cherosene (per cucinare), l’energia elettrica è tagliata per sei ore al giorno, i costanti bhanda (scioperi) e julus (manifestazioni) impediscono di muoversi e di lavorare, se, come probabile, la INGO fallisce, non ci sono prospettive di lavoro; affitto, cibo e scuola portano via il 90% del salario. Ma sopratutto non vede prospettive, non riesce ad immaginare il Nepal fuori dal costante casino che blocca tutto da oltre 12 anni, come tanti ha perso speranza nel suo paese. Mi dice, prima l’instabilità politica (11 governi in 10 anni), poi il conflitto, la rivoluzione del 2006 ora di nuovo assenza di governo e solo marasma.

Stessa storia per molti medici, laureati, esperti informatici, professori che fuggono dal paese, grazie ai network professionali e famigliari e trovano buone occasioni in occidente o in India, svuotando il Nepal di competenze e opportunità. Quando non emigrano loro spediscono i figli studiare all’estero.

Questi, come Rajesh, sono i privilegiati conoscono l’inglese, hanno un network di conoscenze, qualche soldo, una cultura. Poi ci sono gli altri (circa 10.000 al giorno) che lasciano i villaggi, le famiglie e il contesto sociale in cui sono sempre vissuti per l’avventura. Centinaia di migliaia sono finiti in India attraversando i confini aperti senza problemi, chi vuole andare da qualche altra parte deve faticare mesi per ottenere un passaporto, il contratto di lavoro e il visto.

Ogni tanto fuori dall’ambasciata americana di Kathmandu bivaccano intere famiglie in attesa di una green card o per protestare perché non concessa. Le agenzie di lavoro, cresciute come funghi e senza controlli, smerciano gli esseri umani negli Emirati, Malesia, Filippine, Giappone. Le tariffe sono intorno a 60.000 rupie (€ 600), le truffe non si contano e, ogni tanto, gruppi di nepalesi con visti e contratti fasulli sono abbandonati negli aeroporti in attesa che la famiglia faccia un altro prestito ad usura, per pagare il biglietto di ritorno. Tornati a Kathmandu distruggono l’agenzia poco onesta.

Le statistiche governative delle UN variano e come sempre non sono attendibili; quindi si può stimare che all’estero vivano oltre 2 milioni di nepalesi, circa il 10% della popolazione. Nel passato i nepalesi andavano a Hong Kong, Singapore, India per lavorare come poliziotti, militari o nella security (gurkha), nelle piantagioni di tè dell’Assam, nelle famiglie di Dheli o Bangalore nei “dance bar” più scadenti di Sonarchi o Golpitha (le sex aerea di Calcutta e Bombay). Fino al 1990, per ottenere il passaporto bisognava conoscere mezzo governo del Nepal e pagare suntuose tangenti. Dopo, con la “democrazia” e la globalizzazione, è diventato più facile spostarsi e la fuga è diventata irrefrenabile.

Nei villaggi circa il 30% delle famiglie ha un membro che è andato all’estero a cercare fortuna e quando torna con un cellullare, un lettore di DVD portatile, una macchina fotografica digitale invoglia altri giovani alla partenza. If he can earn such money, why not me? But lured by dalals (agents), or by returning migrants sharing their experiences, these boys inevitably do not understand the real economic and psychological price they will have to pay in bidesh (estero), mi racconta un giornalista nepalese.

Ma, più che per le sirene del consumo, è la mancanza di opportunità e di sviluppo personale che fa scappare la gente dai villaggi (che formano il 70% del Nepal), dove spesso non vi è neanche una strada carrabile, una scuola secondaria, servizi sanitari, elettricità. Fermarsi lì significherebbe fare il contadino per sempre o correre il rischio che un monsone troppo forte o troppo debole distrugga il raccolto, che l’usuraio porti via la terra, e che i pochi soldi racimolati volino via per la dote di una figlia\sorella. Poco si sta facendo per migliorare la vita nei villaggi e dare opportunità alla gente che li abita e il successo durante il conflitto ed elettorale dei maoisti è, così. spiegato. Gruppi di ragazzi, i futuri lahure (dai vecchi migranti a Lahore), si raggruppano, timidi e impauriti, nella aeroporto. Tutti con un cappellino colorato dell’agenzia di collocamento e una grossa Tika rossa sulla fonte, a proteggerli nelle “terre impure”.

Oggi una delle mete più frequentate è Doha (in genere gli Emirati) dove stanno costruendo grattacieli, fabbriche, piste di sci. Nello stesso aeroporto la maggior parte dei camerieri nei bar è nepalese e, può essere il primo incontro del turista che viene da occidente. Solo nel Qatar vivono oltre 300.000 nepalesi che lavorano nelle costruzioni, come domestici, commessi e baristi e sono considerati poco più degli intoccabili in India. Molti abitano fuori dalla città nei campi fatti da una moltitudine di casette di due piani dove vivono in sei per stanza. Quando sono in festa mangiano nei ristoranti nepalesi in città e s’incontrano a Nepali Chowk per parlare, comprare merce e giornali importati dal Nepal. Quando risparmiano qualche soldo, dopo aver spedito gran parte alla famiglia, si comprano una bottiglia di liquore locale ( ca. 1 settimana di salario) e lo scolano in compagnia dei colleghi dello stesso villaggio o gruppo etnico o comprano un lettore di DVD e si annichiliscono con i film di Bollywood. Ogni anno circa 160 nepalesi muoiono solo a nel Qatar per incidenti sul lavoro. Il salario medio è € 600 al mese (+ vitto e alloggio).

Nel 2008 è stato siglato un accordo fra Nepal e Qatar per limitari i diritti assoluti dello sponsor (padrone, kafil), migliorare le condizioni di vita e garantire l’accesso ai diritti fondamentali dei migranti (che possono essere espulsi in ogni momento su volere del padrone). In alcuni campi (quelli delle multinazionali occidentali) qualche miglioramento è avvenuto. Quando le condizioni diventano insopportabili esplodono violenti tumulti come lo scorso novembre a Dubai. Malgrado questo accordo, in questo mercato di esseri umani, le ambasciate nepalesi, gli emigranti e neppure il governo ha nessun potere.

Nella generalità dei casi il sogni di comprare una casa o della terra al villaggio, di mandare a studiare i figli a Kathmandu, di assicurare una dote alla figlia si avvera, con immense fatiche e sofferenze e dopo almeno 10 mesi di lavoro per ripagare il prestito per la partenza. Come i loro avi quando andavano a combattere per gli stranieri o coltivare i campi degli inglesi o degli indiani, quando i migranti tornano ai villaggi vestiti come occidentali poveri e con una cinepresa digitale sono eroi, raccontano storie e trasferiscono nuove idee e suggestioni.

Dhane torna a Thulo Parsel, remoto villaggio nel Distretto di Kavre, dopo due anni di lavoro in Malesia. Finalmente può mangiare la polenta (dido) con verdure e un bel pollastro. Alla famiglia racconta storie che qui sono fantastiche, tunnel per le macchine, grattacieli, scalemobili, il mare, le navi. Fa vedere con orgoglio a parenti e amici le foto della sua casa e del suo lavoro. Chi è rimasto lì (le donne) ha curato il campo, venduto il mais, raccolto l’acqua e la legna, dimentica per qualche serata le fatiche durissime e l’attesa del suo ritorno. Non distante a Chapakori, Nirmala e i suoi tre figli sono stati abbandonati dal marito che si è ricostruito una vita nelle Filippine, non ha più inviato soldi, pagato il debito con l’usuraio e la famiglia ha dovuto vendere i pochi ropani di terra con i quali sopravvivevano. I suoceri, malvolentieri, l’hanno accolta, i figli non possono più studiare.

Secondo le statistiche e i sistemi elaborati dalla Banca Mondiale e degli altri “succhiapoveri”, le remittance degli emigrati hanno consentito di ridurre la povertà, in cui vivono il 33% dei nepalesi, che resistono con meno di 1 USD al giorno, del 4.5% . Chi ha un famigliare all’estero riesce ad integrare (e a investire in nuova terra, strumenti agricoli, educazione) il magro reddito famigliare che per la pura sopravvivenza è calcolato in ca. 60.000 rupie (circa € 600) all’anno. Per questo le NU e soci dicono che la povertà è diminuita in Nepal di oltre il 10% negli ultimi dieci anni. I dati sono inventati, vecchi e tesi a dimostrare che la loro attività porta qualche risultato e che i MDG (Millenium Development Goals) si avvicinano.

Gente più seria può solo stimare, in base all’esperienza sul campo (parola che per NU e molte INGO compare solo nei reports) che la povertà è notevolmente aumentata e s’aggira intorno al 60% delle famiglie che raggiungono a stento la quota di sopravvivenza fissata in 2 USD al giorno. Il conflitto, l’aumento costante dei prezzi, il reddito stagnante della produzione agricola sono le cause.

Basterebbe stare per qualche giorno in un villaggio e vedere che per comprare cherosene, sale, tè, e altri generi alimentari non agricoli una famiglia spende in media 300\400 euro all’anno annue a cui bisogna aggiungere sementi e materiale agricolo, animali (altri 200 senza disgrazie), educazione (nelle scuole primarie ca. 40 euro a figlio nelle primarie), più qualche vestito, medicina, qualche spostamento in città. Ballano oltre 1000\1200 euro l’anno  che nei villaggi li hanno visti solo gli usurai e qualche fortunato.

Questo spiega alcuni dati e le ragioni della fuga: il 50% dei nepalesi non sa scrivere né leggere, su 100 bambini iscritti alle scuole primarie solo 30 raggiungono le secondarie, il 50% dei bambini sotto i 5 anni soffre di malnutrizione.

Per il Nepal, le remittance sono l’unica entrata in forte crescita e rappresentano ca. il 25% del PIL e ca. il 35% proviene dagli Emirati e il 25% dall’India (dove vi è il 60% della migrazione nepalese); questo spiega perché i voli economici della Emirates Airline sono sempre pieni.

2 risposte a “La grande fuga

  1. Pingback: Dal Nepal, per morire di freddo a Genova « Crespi Enrico from Nepal (and Asia)·

  2. Secondo i dati del Foreign Employment Promotion Board, solo nell’ultimo anno (2011-2012) sono morti 644 migranti nepalesi, per cause varie fra cui 66 suicidi.

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