Rossella era utile lì?

La liberazione di Rossella Urru è stata una gioia per tutti, specie per i suoi famigliari. Un po’ stridenti le dichiarazioni del primo ministro e di quello degli esteri che hanno voluto prendersi i meriti. In questo caso, come in molti altri simili, l’unico merito è quello dei dollaroni che, sembra, siano serviti a pagare i rapitori e i mediatori(qui si parla di USD 10 milioni) e non si può considerare una buona politica perché rischia di far diventare migliaia d’italiani (impegnati nelle aree a rischio) dei potenziali bancomat per banditi vari. Come sempre nell’Italia degli smemorati non si saprà più nulla se un riscatto è stato veramente pagato, se soldi pubblici siano finiti, come in altri casi, a foraggiare mediatori, capibande, banditi. Quando qualcuno s’incazza, come nel caso degli americani per la liberazione di Giuliana Sgrena, succede un casino ma poi tutto si seppellisce nei misteri statali italiani. Questo è un pensiero e una responsabilità che si deve porre chi, teoricamente, ci governa.

Ma un’altra domanda, più generale, mi frulla in testa: serviva lì Rossella (non lei personalmente ma l’industria dell’assistenza che ce l’ha mandata) o, se non si cambia approccio (lì come altrove), tanti cooperanti, volontari, miliardi di dollari producono pochi risultati visto che povertà, insicurezza, tensioni, profughi aumentano, dopo 40 anni d’assistenza, invece che diminuire.

La regione del Sahel è una striscia ai margini meridionali del Sahara lunga almeno 4500 chilometri che passa dal Senegal, Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Chad. Ci vivono circa 50 milioni di persone in massima parte agricoltori e allevatori che sopravvivono a stento con l’acqua piovana dei tre mesi estivi. Meglio se la passano quelli insediati lunghi i fiumi (molti dei quali però stagionali) e i laghi. Di qua passavano le carovane (oggi i trafficanti di tutto) che finivano a Timbuctù (sulle rive del Niger) un tempo capitale di un prospero regno islamico. Tutta la regione è povera, sottomessa a carestie e siccità (negli anni ’70 morirono oltre 100.000 persone), in questi giorni la parte occidentale sta affrontando la terza crisi alimentare in pochi anni. Guerre tribali, religiose, fra stati hanno reso ancora più fragile e frammentata la regione e reso scarsamente efficaci gli aiuti internazionali.

 L’industria dell’assistenza ha iniziato a operare e a spendere dal 1973 creando il United Nations Sahelian Office (UNSO), poi ha moltiplicato gli organismi con The International Fund for Agricultural Development (1977) e con tutte le ONG e enti delle NU impegnate nell’area. Si calcola che, da quella data, sono stati investiti in aiuti diretti (ONG e NU) e indiretti (finanziamenti a governi corrotti) oltre USD 300 miliardi; l’industria continua a chiederne ma, secondo i loro dati, nel 2005 c’erano 10 milioni di persone “targeted for emergency assistance”, gli stessi (forse aumentati) del 2012.

In 40 anni di Convegni, progetti, reports la situazione dell’area del Sahel è solo peggiorata, i campi profughi sono diventati città stabili, i governi corrotti hanno prosperato con le creste sugli aiuti internazionali, i capibanda si sono moltiplicati spartendosi i soldi dei donatori e fatto affari sulle derrate per i rifugiati, gli estremisti islamici si muovono come pesci nell’acqua della disperazione dei profughi e dei problemi irrisolti. Bande, militari, gruppi estremistici, funzionari governativi terrorizzano i contadini, gli rubano il bestiame e i raccolti, li obbligano ad abbandonare i villaggi, migrare o cercare salvezza nei campi profughi dove sono merce preziosa: attirano gli aiuti internazionali sui quali le bande criminali e i funzionari corrotti prosperano. Le bande hanno i soldi per compare le armi, rifugi sicuri, centri di reclutamento. Fattori che rendono eterni ed estesi i conflitti (e la povertà).

Quello che dovrebbe chiedere l’industria dell’assistenza non è altri soldi (di cui almeno il 70% finisce a finanziare se stessa) ma come cambiare l’approccio e i metodi (qui come altrove) se non si è in grado di creare un minimo di condizioni strutturali per limitare e contenere disastri e situazioni naturali, dare opportunità alla gente, favorire le soluzioni dei conflitti. (oltre agli interventi, unici efficaci, nelle emergenze umanitarie). Per esempio dopo miriadi d’incontri del Club Du Sahel (che raccoglie da decenni i donatori, come l’ennesimo a Roma nel febbraio 2012), non si è riusciti nemmeno a creare un “regional food reserve” in grado di contrastare le emergenze, figuriamoci interventi strutturali su agricoltura, irrigazione, commercio. Per sprecare soldi, oltre ai convegni, progetti inutili, è stato piazzato anche il FEWS (famine early warning system) che come spesso accade in questo settore, segnala i disastri quando sono già accaduti e muove migliaia di esperti a scrivere volumi di recomendations.

Oggi la situazione è, per certi versi, peggiore di qualche decennio orsono poiché, i fondi dell’assistenza internazionale e, in genere, la comunità internazionale, non hanno impedito la disintegrazione delle istituzioni, stati, comunità; ma hanno favorito il moltiplicarsi di fazioni, gruppi armati, frammentazione sociale. Le conseguenze sono l’aumento della violenza e dell’insicurezza (e, conseguentemente della povertà) da cui fuggono flussi di profughi dal Mali, Mauritania, Niger (si parla di circa 150.000). Un ciclo senza fine in cui si continua a investire in situazione precarie che aumentano la precarietà come il campo profughi di Ouallam (costato miliardi di USD e di cui se ne richiedono, oggi, altri 2 miliardi).

Anche dove lavorava Rossella (Sahara Occidentale) è dagli anni ’70 che la questione è aperta. Quando la Spagna si ritirò nel 1975, questi territori furono contesi con una guerra fra Marocco e Mauritania che lasciò migliaia di rifugiati e il popolo originario (Saharawi) in lotta per l’indipendenza. Sono gli anni del Polisario, del muro minato costruito dal Marocco e dei campi di rifugiati e della fantomatica Saharawi Arab Democratic Republic.  Nel 1991 fu tentato dalle NU un referendum per decidere se integrarsi nel Marocco o creare uno stato indipendente, che non fu mai tenuto. Da allora niente, solo chiacchiere, e oggi, il rischio, che i giovani (che sono il 60% nei campi) scelgano il terrorismo come, ultima chance disperata per tornare nelle loro case.

I campi intorno a Tindouf (150.000 rifugiati) sono in una zona desertica dove è impossibile sviluppare attività agricole sostenibili, in compenso, come tutti i ghetti e campi del mondo, da temporanei sono diventati stabili con, TV satellitari, giornali, radio, ristoranti, bar, scuole e una ricercata meta del turismo dell’assistenza e di iniziative varie,  fra cui la Sahara marathon e il Sahara film festival. Unica fonte di sopravvivenza per i profughi, da 40 anni, gli aiuti internazionali che rendono la gente degli assistiti frustrati. Infatti, chi non ruba sugli aiuti, vorrebbe tornare a casa, avere un lavoro, delle opportunità. Anche qui la storia è sempre la stessa, gli aiuti creano una mafia, finiscono al Polisario (i cui membri non sono tutti santi, ci sono fazioni alcun accusate dell’ultimo rapimento dei cooperanti), favorendo così il perdurare dei campi e dei conflitti. Tutto è già stato descritto in centinaia di rapporti, documentari e nelle stesse dichiarazioni di esponenti del partito unico (come dopo gli scontri fra militanti e popolazione nel 2011). A Zevirath, in Mauritania, transitano e sono venduti gli aiuti (alimentari e non) provenienti dall’occidente. Anche nei documenti ufficiali delle Nazioni Unite leggiamo: Despite the dire need for humanitarian assistance in the Tindouf refugee camps in Algeria, much of that aid was misappropriated and wound up in the markets of Algiers and Timbuktu; Populations in the camps were frustrated, another petitioner said, and were thus subjected to recruitment by radical movements. Every year, many people disappeared into the desert, going off to Morocco, or joining groups like Al Qaida.

Non sarebbe, qui come altrove, che s’iniziasse a pensare cosa cambiare, come spendere meglio i soldi investiti, come utilizzare meglio risorse internazionali e locali o, come accade, tutti gli attori tranne i beneficiari) pensano solo come auto sostenersi.

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7 risposte a “Rossella era utile lì?

  1. Mah, in realtà questo articolo è molto generalista e serve a buttare l’ennesimo fango sulla cooperazione internazionale con dati imprecisi.
    Anch’io ho lavorato nella cooperazione internazionale e sono consapevole di alcune criticità ma frasi come “tutti gli attori tranne i beneficiari pensano solo come auto sostenersi” oppure “di cui almeno il 70% finisce a finanziare se stessa” riferito alla “macchina dell’assistenza” forse si riferisce ad alcune organizzazioni per cui hai lavorato tu, ma io non ho la medesima esperienza e vorrei prenderne le distanze.
    Nella cooperazione internazionale si fanno e si continuano a fare numerose riflessioni per testare l’efficienza e l’efficacia delle azioni portate avanti nel territorio, in concertazione con molti attori, tra cui società civile e autorità locali, non ricondurrei il tutto ad un generalistico ed esteso a tutti, “magnamagna”. Lo stesso termine beneficiari che tu usi, da un po’ è stato sostituito meglio da cittadinanza attiva o utenti, intendendo con questo una forma partecipativa e di presa di coscienza delle azioni.
    Questo per dirti solo che le critiche vanno bene e sono sempre ben accette, se si tratta di dialoghi costruttivi e non dell’ennesimo fango fine a se stesso e molto “populista”.
    Grazie.

  2. Bhe, Betta, più che generalista l’articolo è in generale e i dati (in generale) non sono imprecisi. Nel caso specifico vi sono immensi investimenti per scarsi risultati e ciò è innegabile, in quest’area come altrove.
    Nello specifico abbiamo visto i bilanci di alcune ONLUS e ONG e, purtroppo, malgrado si cerchino di girare e rigirare i numeri, i dati sono quelli. Per non parlare del sistema delle NU.
    Penso che tu sia un pò generalista parlando di “fango, critiche generaliste, etc.” e mi sembra il solito modo semplice, senza entrare nel merito, per difendere un “sistema” che non è noto per efficenza e trasparenza. Si parla di 9 miliardi spariti, di bilanci rabberciati, di progetti inesistenti, sprechi enormi e sono sempre “critiche generaliste, gettare fango di qua e di là”, mai che uno dica abbiamo sbagliato, questi sono i responsabili dell’errore, cerchiamo di cambiare, diamo informazioni sul problema, etc. (vedi il caso VIS e AGIRE).
    Riguardo all’articolo (per forza generale), una risposta, se una ha voglia beninteso, sarebbe dovuta essere nel merito, cioè che benefici ha portato (a livello generale) 40 anni d’attività dell’industria dell’assistenza nel Sahel e nei confronti dei profughi e della questione Saharahi, visto che sono sempre lì ed, anzi, aumentano senza prospettive?
    Poi è chiaro che ci sono progetti ben riusciti, gente che lavora seriamente, organizzazioni che compiono importanti interventi nelle crisi e nelle emergenze, ma è “in generale” il sistema che, a mio avviso, è scarsamente produttivo, sprecone ed autoreferenziale.
    Poi, che siano beneficiari (come in effetti sono) o utenti (di che servizio?) non mi sembra decisivo, il fatto è che spesso, costoro, ricevono poco sia in termini di benefici che di partecipazione. Si hai ragioni si discute da decenni, ci sono centinaia di strumenti, decine di conferenze per valutare e raccomandare io mezzi migliori per valutare l’efficienza dei progetti, come ci sono società di certificazione per “certificare” i bilanci di VIS e Agire con dentro milioni di euro di obbligazioni Berkley inesistenti o chi da’ un premio di Bilancio a una ONLUS da tre anni in deficit.
    La forma è una cosa, la sostanza un’altra.
    Infine, la società civile e le istituzioni in molti paesi sono formati dalla stessa gente, le elites (da cui sono reclutati anche i funzionari locali delle ONG) che sono i principali beneficiari degli aiuti internazionali, e che hanno tutto l’interesse a dire: bravi, andate avanti così.
    Tutto quanto ho scritto non è nuovo, è stato studiato in forme organiche (vedi DOCS), con studi e cifre eppure il “sistema” è sempre lì, a dare la colpa agli altri.

  3. Adesso va meglio, se scrivi “alcune ONG” oppure se scrivi VIS o AGIRE o UN è un’altra cosa rispetto a dire che tutto il sistema si autosostiene e che è sprecone, così danneggi inutilmente realtà che lavorano seriamente, e ce ne sono. E’ come screditare tutta la politica, quando ci sono politici che lavorano seriamente… Screditare a prescindere è diventato una moda che non fa bene a nessuno…

  4. Sai Betta, io ho la teoria (e l’ esperienza) del 10% (per certi settori meno) di cose fatte bene, persone serie e/o capaci. Nel caso dei politici e dell’industria dell assistenza scende di qualche punto anche perche’ spesso i due settori sono ben connessi.

  5. Buongiorno
    in merito a quanto ha scritto Betta, segnalo che, purtroppo, la malagestione è generalizzata e comunemente accertata. Cito questo articolo, uno dei tanti che descrivono l’utilizzo corrotto o sbagliato delle donazioni internazionali. In Nepal è da anni attivo un progetto diretto a sviluppare il Local Governance Community Development Programme (LGCDP), cioè rafforzare i Village Development Commitee (simili ai ns. comuni). C’è da dire che a causa della mancanza di norme e di governo gli enti locali sono praticamente inesistenti, non ci sono elezioni da anni e anche i segretari comunali hanno dato in massa le dimissioni. Questi sono i risultati del progetto.
    Asian Development Bank, UK Aid DFID, UNDP e the World Bank hanno già veicolato a ONG e governo USD 200 milioni dal 2008. Ha dichiarato l’amico Himkal Bista (esperto universitario del settore) “At a time when local bodies were without elected representatives, the government implemented the programme assuming that learning by doing brings perfection. However, the programme has failed to achieve anything significant”. The government encouraged corrupt activities instead of bothering to maintain good governance. As a result, fiduciary risk is increasing rampantly,”
    La corruzione è stata addirittura ammessa dal responsabile governativo del programma Gopi Khanal, LGCDP programme coordinator. Ora sono stati promessi dai donatori altri milioni di dollari.

  6. Campi saharawi: dove finiscono gli aiuti umanitari?
    1
    http://www.saharanews.org/index.php?option=com_content&view=article&id=260:comment-laide-humanitaire-aux-sahraouis-est-detournee-avant-darriver-a-tindouf&catid=1
    2
    inchiesta

    3
    analisi
    http://saharadumaroc.net/spage.asp?rub=3&Txt=132&parent=&parent2=
    4
    il capo dei separatisti “Polisario” disporrebbe conti di centinaia di milioni d’euro in Spagna, deviati dagli aiuti umanitari internazionali.
    http://www.afroeuropa.blogspot.it/2012/06/algeriatindou-khat-achahid-lo-scandalo.html

  7. Quanto scrive Yassine e’ comune e documentata per tutti i campi profughi del mondo, lo stesso accadeva a Juphal (Nepal) nei campi dei buthanesi, dove bande criminali gestivano e prendevano mazzette sugli aiuti. Qui, per fortuna, dopo 20 anni i profughi sono in gran parte migrati all estero.
    E’ straordinario che l’ industria dell’ assistenza ripeta costantemente gli stessi errori, come un testardo caprone. Ma anche loro devono sopravvivere.

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